Venerdì Santo (2.4.’021).
Is. 52, 13 – 53, 12; Eb. 4, 14 – 16. 5, 7 – 9; Gv. 18, 1. 19 – 42.
Il Venerdì Santo la Chiesa non celebra l’Eucarestia. Non manca tuttavia di convocare i suoi figli per celebrare la Passione del Signore. E’ un adorare, un contemplare, un fare proprio quale evento di salvezza il mistero dell’amore di Dio, eterno, immutabile e creatore di Dio che sta nei cieli, ma che oggi scende sulla terra e attraversa la morte del Figlio di Dio che si è fatto Figlio dell’uomo, perché la morte, ultimo nemico, sia vinta, e la vita, dalla risurrezione, torni ad essere la caratteristica dell’umanità. Noi questo mistero, che unisce cielo e terra, l’eternità del cielo e la provvisorietà e imprevedibilità della terra lo contempliamo mettendoci in ascolto della Parola di Dio, lo adoriamo adorando il legno della S. Croce, lo facciamo nostro ricevendo l’Eucarestia che è stata conservata, segno della presenza di Gesù, nel sepolcro, in cui è stata collocata al termine della celebrazione del Giovedì Santo.
La proclamazione della Parola di Dio è iniziata da un brano del profeta Isaia. Vive e predica in un tempo di grandi rivolgimenti politici, a cui il profeta partecipa attivamente, al punto tale che la sua predicazione verrà definita predicazione della politica della fede. Il brano che abbiamo ascoltato ci pone di fronte a questa alternativa. Il re d’Israele vuole ricorrere alle grandi potenze per poter sconfiggere gli eserciti nemici. Ma questo non fa che produrre distruzione e sofferenza. Ed è nella sofferenza che emerge una grande verità: chi soffre non è solo un ribelle, ma è uno che mette la sua vita, la sua sofferenza, perché non è né compreso, né accettato, ma rifiutato e perseguitato, a servizio del bene del suo popolo. E se non il re, Dio accetta quest’opera, la fa sua e realizza il bene del suo popolo.
L’autore della lettera agli Ebrei non si limiterà a rilevare il fatto, ma darà un nome preciso a Colui che nella sofferenza ha offerto la sua vita per il bene del suo popolo: è Gesù, il nostro sommo sacerdote, a cui dobbiamo restare fedeli, che nella sua vita terrena ha offerto preghiere con forti grida e lacrime, ed è stato esaudito per la pietà, imparando l’obbedienza dalle cose che patì. La sofferenza è servizio di salvezza, ma anche strada per imparare l’obbedienza, che ci permette di vivere in pienezza la vita di Dio.
E’ con queste visioni offerte dalle due letture che noi entriamo nel racconto della Passione dell’evangelista Giovanni. Coglie Gesù che esce da una cena vissuta con i suoi apostoli per recarsi al Getsemani. Ma non vi giunge perché raggiunto dalle guardie dei sacerdoti, che lo stanno cercando. Con un po’ di coraggio potremmo definire il racconto dell’evangelista Giovanni la descrizione di una cavalcata trionfale, per il momento finita male perché vogliamo celebrare il mistero della Passione del Signore. All’inizio può risuonare la domanda, da parte di Gesù: chi dite che Io sia? E come sempre l’Evangelista gioca sull’ignoranza di chi non comprende Gesù. Le guardie sentenziano che sia Gesù Nazareno, Uno che non porta nulla di buono, perché cosa può venire di buono da Nazaret? Un profeta non può venire dalla Galilea. Ma Gesù rivela solennemente: Sono Io! E’ la rivelazione piena, che già era stata compiuta nel deserto, quando Mosè si era rivolto alla voce misteriosa che lo chiamava, chiedendo il nome. Anche allora era risuonato: Io sono! Un Io sono che dice presenza, che dice costanza, che dice pazienza, che dice potenza, che dice amore eterno. Se a Mosè era stato imposto di togliersi i calzari, ora le guardie tramortiscono. La violenza non ha mai l’ultima parola, che è di Dio, che è Dio, che Colui che vogliono mettere in catene è il Verbo eterno, la Parola di Dio. Da quel momento Gesù prende in mano la situazione, e la conduce attraverso i cortili dei potenti, Anna, Caifa, Pilato. La conduce attraverso il rinnegamento di Pietro e la prepotenza dei servi e delle guardie, la conduce lungo la via del Calvario, donando tutto: i suoi abiti e la tunica fatta tutta di un pezzo. La conduce dando gli ultimi ordini a sua Madre e al discepolo che Egli amava. La conduce osservando che tutto è compiuto ed emettendo lo Spirito. La conduce ancora facendo venire alla tomba Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, discepoli di Gesù ma nascosti per timore dei Giudei. Se prima si era mossi verso Gesù nella notte per trovare la luce, ora si muovono verso la notte, certi che la tenebra si cambierò in luce. E’ davanti a quel masso con cui viene chiuso il sepolcro che anche noi ci fermiamo. E poiché riceviamo il Corpo del Signore rendendo il nostro cuore il suo sepolcro, vorremo osservare se per caso quel masso non sia la nostra incredulità, chiedendo a Gesù di aiutarci a spostarlo, perché anche in noi trionfi la luce della Pasqua. E così sia.